di Paolo Bertoli

Quanto costa alle imprese e ai cittadini la Giustizia italiana che, nonostante alcuni positivi segnali quali la revisione della geografica giudiziaria, l’introduzione del processo telematico e della mediazione privata, è ancora molto lontana dagli standard europei e internazionali?
L’inefficienza del sistema giudiziario, la lentezza inesorabile nei contenziosi civili, nel recupero crediti e nei procedimenti penali economici rappresentano oneri insostenibili. In molti casi non è in gioco solo una questione economica ma la stessa sopravvivenza dell’impresa e, se si tratta di persone – in particolare per i procedimenti che rientrano nel Diritto Penale dell’economia – la posta è ancor più alta poiché il sistema punisce non solo i rei (come certamente giusto) ma anche coloro che solo dopo molti anni vengono riconosciuti non colpevoli di reati, la cui reputazione rimarrà comunque macchiata in modo indelebile.
Secondo lo studio Cer Eures “Giustizia Civile, imprese e territori” (presentato a ottobre 2017 da Confersercenti), il malfunzionamento dei tribunali costa all’Italia circa 40 miliardi di euro, pari a 2,5 punti del Pil, e le aziende spendono all’anno circa 3 miliardi per i soli contenziosi lavorativi. Questa ricerca evidenzia anche come un efficientamento del sistema giudiziario consentirebbe di recuperare ben 130 mila posti di lavoro e mille euro di reddito pro-capite. Recenti studi di Banca d’Italia dimostrano inoltre che il dimezzamento dei tempi giudiziari significherebbe per le piccole imprese non solo minori spese, ma un più agevole accesso al credito e un incremento dell’occupazione.
Allo stato dell’arte, quindi, anche se il numero di nuove cause (1,75 milioni) oggi è in linea con gli altri Paesi UE, il miglioramento non si percepisce perché avviene con una lentezza inaccettabile e perché è gravato dalla pesante zavorra rappresentata dall’enorme arretrato che i Giudici riescono a smaltire solo in parte. Il totale delle cause pendenti è sceso dai 5,9 milioni del 2009 ai 4,4 milioni del 2016. Ma non basta. In 82 tribunali su 140 una causa su cinque ha più di tre anni, oltre la durata ragionevole fissata dalla Legge Pinto, e si registrano ancora significative differenze tra i diversi tribunali, probabile sintomo di disfunzioni organizzative.
Ricordiamo, solo a titolo di esempio, la clamorosa vicenda che ha visto protagonista il noto giornalista americano Dennis Redmont, che ha atteso ben 36 anni prima che l’Agenzia delle Entrate vincesse definitivamente in Cassazione la vertenza fiscale intentata contro di lui. Un ritardo ingiustificabile che potrebbe esporre il nostro Paese a un possibile giudizio davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo (non sarebbe certamente la prima volta).
Per non parlare di alcuni casi clamorosi di errore giudiziario che vedono coinvolti aziende e professionisti. Si potrebbe citare la drammatica vicenda giudiziaria dell’Avv. Giuseppe Melzi, stimato professionista milanese, che si è di recente conclusa. Arrestato con l’accusa di riciclaggio e concorso in associazione mafiosa nel 2008, è detenuto per tre mesi in carcere, altri sei e mezzo agli arresti domiciliari, e viene sospeso dall’attività professionale per complessivi tre anni e due mesi. Dopo alterne e surreali disavventure giudiziarie, nel marzo 2016 viene formulata la richiesta di archiviazione per non sostenibilità delle accuse.
Analoga vicenda giudiziaria vede coinvolto Mario Rossetti, già CFO e Consigliere di Amministrazione di Fastweb, che ha raccontato la sua storia nel libro “Io non avevo l’avvocato” recensito nel secondo numero di ANDAF Magazine. Al riguardo, il numero della rivista citato, ospita anche un interessante articolo dedicato al tema delle responsabilità degli Apicali, del loro ruolo in azienda e delle relative tutele e rimedi preventivi da porre in essere per assicurare tracciabilità del proprio operato e anche per preservare il patrimonio familiare.
Ci si domanda dunque come sia possibile che processi lunghi e complessi come quelli appena citati, con conseguenze importanti per i singoli e per intere aziende, risultino ai fatti e dopo così tanti anni del tutto infondati? È ammissibile la superficialità con la quale vengono disposte pesanti misure cautelari, per poi – in moltissimi casi – scoprire che sono del tutto immotivate?
È d’obbligo chiedersi, a questo punto, chi risponde delle conseguenze – a volte drammatiche – dei ritardi processuali e delle notevoli perdite economiche che ne derivano per il Paese. Chi rende conto della sofferenza che in alcuni casi, come quelli sopra citati, travolge ingiustamente stimati cittadini e intere famiglie? Che ne è della presunzione di innocenza che dovrebbe essere alla base del nostro Diritto?
Una discussione serena su questo tema appare davvero importante. L’auspicio è che il nuovo Governo, che speriamo potrà nascere presto, ponga il tema del funzionamento dell’apparato della Giustizia tra quelli prioritari.

Articolo pubblicato sulla rivista ANDAF di aprile 2018