UNA CONVERSAZIONE CON IL FILOSOFO UMBERTO GALIMBERTI PER RIFLETTERE SULL’ATTUALE MOMENTO DI INCERTEZZA E DISAGIO DETERMINATO DALLA PANDEMIA E PER GUARDARE
AL NOSTRO FUTURO, SOPRATTUTTO ALLE NUOVE GENERAZIONI CHE LO RAPPRESENTANO E CHE PURTROPPO EREDITERANNO UN PIANETA E UNA ECONOMIA DA RIFONDARE.

L’anno appena trascorso è stato pesantemente segnato dalla pandemia dovuta al Covid-19. Ci auguriamo tutti, con l’arrivo del nuovo vaccino, che la situazione nel corso del 2021 possa tornare in una condizione di governabilità. Ma, secondo lei Prof. Galimberti, davvero tutto potrà tornare come prima?

Innanzitutto, che la fine del 2021 sia la data della ripresa, grazie a un controllo della pandemia o addirittura alla sua estinzione, mi sembra una visione abbastanza ottimistica. Come disse un importante Professore, mio interlocutore in una conferenza tenutasi a Praga: l’ottimismo è la virtù delle persone poco informate.

Come facciamo a dire con certezza che finirà nel 2021 e che i vaccini funzioneranno? Non è sufficiente soltanto che siano efficaci in laboratorio, bisogna attendere di vederne gli effetti sui singoli individui: anche gli psicofarmaci funzionano ma solo su certi individui e non su altri. Ho paura, inoltre, che l’Italia non riesca a organizzare un sistema serio, non soltanto per la distribuzione di questi vaccini ma anche per la loro conservazione.

Per tutte queste ragioni, francamente non credo che per la fine del 2021 avremo concluso con questa pandemia. Una cosa è certa, però, il virus ci costringe a riflettere su qualcosa che è ben più grave del virus stesso: se sono stati sufficienti solo due mesi, come è accaduto nella scorsa primavera, a far crollare l’economia dell’Occidente, allora chiediamoci su che gambe essa stia in piedi. Indubbiamente gambe d’argilla. Se la paragoniamo, ad esempio, all’economia agricola è facile comprendere la differenza: una siccità che poteva durare anche più di due mesi non mandava in rovina definitivamente la condizione dei contadini, mentre per noi oggi non è così. Sono sufficienti due mesi per far crollare tutto, e sarà difficile ritornare ai livelli di prima considerato che siamo essenzialmente interconnessi e globali, due categorie che per altro determinano la diffusione delle pandemie e i vari contagi.

Questa pandemia ha colpito tanto l’economia quanto gli individui e i loro rapporti di relazione, anche se noi che abbiamo qualche anno in più ne stiamo vivendo le conseguenze in modo diverso rispetto ai giovani. Che esperienza matureranno le nuove generazioni? Cosa ricorderanno di questa situazione tra qualche anno? Quali le loro riflessioni in un mondo sempre più virtuale con una serie di problematiche da affrontare e gestire, a partire dalla clausura forzata che ci condiziona tutti?

Questa domanda presuppone che tutto si risolva e che la vita continui così come l’abbiamo vissuta fino ad ora, ma su questo nutro più di qualche dubbio.
Qualunque sia lo scenario che si prospetterà nel prossimo futuro, i giovani sono senz’altro le prime vittime di questa pandemia perché dovranno pagare l’aumento del debito pubblico che noi stiamo determinando, e non so quale futuro si prospetterà loro con un debito così elevato. Si riuscirà a distribuire stipendi, servizi, scuole, ospedali? Un aspetto questo che nessuno prende in considerazione, specialmente ora che si stanno moltiplicando le richieste di fondi per supportare tutte le categorie in difficoltà. Aumentando il debito è inevitabile che si creino subito le premesse negative per le generazioni future. Questa erogazione di denaro si chiama Next Generation e quindi dovrebbe riguardare la prossima generazione, ma in realtà serve soltanto a salvaguardare la nostra. La situazione in cui si trovano i giovani però era già drammatica prima della pandemia, una situazione da far paura. Vivono in pieno la dimensione del nichilismo che Nietzsche aveva profetizzato: manca lo scopo e manca la risposta al perché dell’esistenza.

Lo scopo, ossia il futuro, per i giovani non è una promessa perché del tutto imprevedibile, mentre nella nostra generazione il futuro era lì ad aspettarci. Ad esempio, io mi sono laureato in filosofia, ho fatto il concorso e dopo un anno ero in cattedra di filosofia al Liceo. Oggi, invece, se un giovane si laurea in filosofia deve mettersi in testa che non insegnerà mai filosofia.

Manca la risposta al perché dell’esistenza, perché mi devo impegnare, studiare, stare al mondo. Una dimensione veramente impressionante, perché se il futuro non è motivante, retroagisce come demotivazione. E, purtroppo, sono tanti i giovani che oggi si suicidano. Di recente sono andato a fare una conferenza in una clinica psichiatrica svizzera e ho chiesto per quale ragione mi avessero coinvolto: mi hanno risposto che la Svizzera ha superato Svezia e Giappone per numero di suicidi giovanili.

Sono convinto che spesso i giovani oggi bevano e si droghino non tanto per il piacere che ne deriva, quanto per anestetizzarsi dall’angoscia di guardare il futuro e così vivere l’assoluto presente in una bella festa dionisiaca esattamente come aveva descritto Boccaccio nel Decameron a proposito dell’epidemia di peste che sconvolse Firenze nel 1348.

C’è possibilità, almeno in parte, per i Senior di questo Mondo di fare qualcosa?
Noi siamo quelli che hanno creato questa situazione e non so se siamo in grado ormai di porvi rimedio, specie ora che è così generalizzata. Noi ci siamo definiti non più uomini ma consumatori e produttori, perché questo era il modello che si imponeva nella vita sociale. Vi è già quindi un degrado nel modo di concepire l’uomo. Se non si consuma non si produce, e se non si produce si rompe il circolo, inizia la disoccupazione, la disperazione e si presenta anche la possibilità di rivolte. Abbiamo inoltre un consumo forzato per cui le cose si buttano via non quando sono arrivate alla fine del loro ciclo, ma semplicemente quando non sono più di moda o non sono più socialmente presentabili, oppure quando il pezzo di ricambio costa come comperare l’elettrodomestico nuovo. Questo si chiama nichilismo: portare al niente le cose nel tempo più rapido possibile. Una società nichilista come fa a cambiare le cose? Deve necessariamente cambiare sistema.

La natura non la percepiamo più come luogo di abitazio- ne dell’uomo ma la consideriamo ormai come materia pri- ma. Già nel 1927 Heidegger diceva che noi quando vediamo un fiume pensiamo all’energia elettrica, quando vediamo un bosco pensiamo al legname, quando vediamo un suolo pensiamo al sottosuolo. Questa diversa percezione ci porta a ritenere che il nostro luogo di abitazione, che è la terra, sia semplicemente fonte di materia prima e – aggiungeva Heidegger – non siamo ancora arrivati a considerare l’uomo come la materia prima più importante. Abbiamo pervertito il mondo e il risultato oggi è il grave problema ecologico, a cui peraltro non cerchiamo di porre rimedio se non miseramente. E poi c’è da considerare la globalizzazione. Siamo stati noi a esportare le nostre fabbriche, la nostra produzione dove costava meno, e lo abbiamo fatto con un atteggiamento da colonizzatori invece di favorire l’emancipazione dei popoli sottosviluppati, mossi unicamente dall’obiettivo di abbassare il più possibile il prezzo. Abbiamo assunto il denaro come generatore simbolico di tutti i valori: non sappiamo più che cosa è bello, che cosa è buono, che cosa è santo, che cosa è vero, che cosa è giusto, capiamo solo che cosa è utile. Anche l’opera d’arte diventa arte solo quando entra nel mercato, perché se sta fuori è una semplice espressione biografica. Allora se tutto è regolato dal mondo economico, la politica può tranquillamente “andare in televisione” perché non svolge più alcuna funzione.

Platone diceva che la politica era la tecnica regia, perché mentre le tecniche sanno come si devono fare le cose, la politica decide se e perché vanno fatte. Ma oggi la politica per fare le cose guarda all’economia, si può quindi affermare che il regime si è spostato dalla politica all’economia. E l’economia è l’ ultima istanza della decisione? No, perché l’economia per investire guarda a risorse e novità tecnologiche; dunque il luogo della decisione si è spostato sulla tecnica, ma la tecnica non ha scopi, perché lo scopo della tecnica è unicamente il suo auto-potenziamento, che non significa progresso dell’umanità ma sviluppo dei mezzi, degli strumenti e dei macchinari. Si potrebbe dire della tecnica quello che Nietzsche diceva della volontà di potenza, ossia “vuole sé stessa” senza neanche conoscerne lo scopo. Cosa possiamo fare noi di fronte a queste destrutturazioni fondamentali del modo di vivere: la percezione dell’uomo non più come persona ma come consumatore/produttore, la natura ridotta a materia prima, il profitto e il mercato assunti come regola generale delle relazioni umane? A dire il vero le merci oggi sono molto più libere delle persone, perché possono girare in tutto il mondo mentre gli uomini devono stare ben confinati nelle loro terre.

Ormai noi adulti, che abbiamo creato queste condizioni, non possiamo fare più niente. Vediamo se i giovani riusciranno a cambiare le cose… e forse qualche speranza c’è. Di recente, ad esempio, ho saputo che in America le nuove generazioni preferiscono una riduzione di stipendio pur di avere più tempo libero, e già questa è una mossa attraverso la quale si denuncia che forse siamo al mondo per vivere e non per produrre.

Questa pandemia purtroppo determinerà il default di molte imprese. Karl Marx scrisse: «Non c’è modo migliore per fa ripartire una economia che distruggere la ricchezza». Sarà così? Secondo lei questa situazione potrebbe essere per i giovani un’opportunità per costruire un mondo migliore di quello che gli abbiamo lasciato noi?

La ricchezza è un fattore neutrale. Se la ricchezza è in ma- no di pochi, come adesso che l’1% della popolazione detiene il 99% della ricchezza mondiale, allora la ricchezza non è significativa in sé. Se è accumulata dall’1% e quindi sottratta al resto della popolazione mondiale è male, non sarebbe così se fosse distribuita. Il problema secondo me, quindi, non è tanto riaccumulare la ricchezza dopo averla persa, ma distribuirla equamente e far sì che non venga accumulata da poche persone che controllano tutto il mondo. Marx diceva, giustamente, che il capitalista non è avaro, è collezionista. Proprio come un collezionista di francobolli, infatti, quando vede un affare non resiste, anche se è ricchissimo, a non competere per accaparrarsi anche quell’affare. In questa dimensione collezionistica, ci sono persone che non sanno più dove “buttare” i soldi e poi noi disquisiamo sulla povertà nel mondo.

La ricchezza ha senso se è distribuita, e allora porterà pace sociale, ma se non è distribuita e la gente che non ha più denaro diventa numerosa, allora è facile che si verifichino delle insurrezioni. Del resto come abbiamo fatto sin dall’Ottocento per contenere le rivolte popolari? Dato che la ricchezza è costituita dal capitale, dal lavoro e dalle materie prime, siamo andati a prendere le materie prime in Africa, a basso costo, corrompendo i Governi dei vari Stati e abbiamo aumentato lo stato sociale dei nostri lavoratori. Abbiamo riequilibrato le cose a spese di altri e, naturalmente, gli altri adesso vengono da noi dopo che li abbiamo depredati. Recupereremo la ricchezza? Non lo so, certo dalla terra non si potranno più estrarre risorse, a meno che non la si voglia ridurre a un deserto. Al contempo la popolazione aumenta in maniera esponenziale, riducendosi però nei Paesi occidentali. È così che l’Occidente va incontro al suo nome, che vuol dire tramonto… il tramonto dell’Occidente. È possibile che finisca anche questa civiltà come è crollato l’impero romano, l’egemonia greca o quella egizia. Non siamo eterni e se sbagliamo queste mosse, se creiamo una umanità infelice a causa di una cattiva gestione delle risorse naturali e del lavoro, non possiamo che assistere al nostro declino. Per giunta non facciamo più figli, quindi mi pare ci siano tutte le condizioni per questo tramonto.

Ringraziandola ancora da parte di ANDAF per averci dedicato il suo tempo, in chiusura di questa intervista le chiediamo un messaggio per i più giovani.
Ho scritto un libro che si intitola “La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo” dove rispondo semplicemente alle lettere che mi hanno inviato. Di fronte al nichilismo che ho descritto poc’anzi ci sono due atteggiamenti: la rassegnazione o l’attivazione.

Vuol dire che magari un giovane si laurea in una determinata disciplina, magari consegue anche un master e poi, non trovando lavoro, va a fare il gelataio in Germania oppure la cameriera in un hotel, quindi si attiva nel mondo del lavoro a prescindere dalla condizione a cui era pervenuto attraverso laurea e master. Questi sono i nichilisti attivi. Ho raccolto 72 lettere di giovani dai 15 ai 30 anni, attivi perché si danno da fare e non si rassegnano per tre condizioni:

1) Il futuro è per necessità dei giovani (mi chiedo se ne siano consapevoli?) e lo devono preparare loro. Dovremmo smettere di coccolarli e dar loro tutte le possibilità come abbiamo fatto fino ad ora, anche perché quando avranno eroso tutta la nostra ricchezza per vivere cosa ci resta?

2) La nostra società, invece di parlar di giovani, dovrebbe farli entrare subito nel sistema produttivo o di lavoro perché è questa l’età in cui hanno il massimo della potenza biologica. Cosa hanno da vendere? Corpo, forza fisica e bellezza: i giovani tra i 15 e i 30 anni sono biologicamente più forti dei vecchi e sono anche sessualmente più potenti, ma la loro sessualità non può generare perché mancano le condizioni economiche, perché non possono comprare la casa, perché non hanno un lavoro. E questo è il declino di una società se non genera.

3) I giovani dai 15 ai 30 anni hanno inoltre il massimo dell’intelligenza e della potenza ideativa. Per fare degli esempi: Einstein ha trovato la sua formula a 24 anni, Leopardi ha scritto l’Infinito a 22 anni, gli inventori di Google e di Apple è trai 20 e i 30 che–in un garage– hanno dato vita alle loro invenzioni che avrebbero poi trasformato il mondo.

Questo significa che bisogna attivarsi e non aspettare il futuro. Quella di aspettare è una retorica orrenda, parte dal presupposto errato che il futuro sia sempre un rimedio al passato. Il futuro invece è un tempo come un altro, e sarà un rimedio al passato solo se mi sarò dato da fare, ma non lo sarà di certo se resto nello stato della pigrizia, della rassegnazione, del mantenimento e nella modalità con cui abbiamo cresciuto i nostri figli, rimpinguandoli di benefit che magari non avevano neanche desiderato. Ed è chiaro che così non li abbiamo stimolati a creare: è questo il problema! Teniamo però presenti le loro tre potenze (che se ne convincano!): sono biologicamente più forti, sessualmente più potenti e dal punto di vista ideativo riescono a dare il massimo. E la società cosa fa nei loro confronti proprio in quell’età in cui dovrebbero dare il meglio? Li prende a fare le fotocopie, a fare gli stage, a fare lavori in affitto. Se una società non li impiega e non utilizza le risorse più forti e più potenti che ha possiamo forse dire che questa società ha ancora un futuro? Io penso di no!

Articolo pubblicato sulla rivista ANDAF Magazine di gennaio 2021