Di Paolo Bertoli
(dal volume n. 4 degli “Scenari Industriali” del Centro Studi di Confidustria, dal Sole 24 Ore da Report S&P)
L’Italia rimane la settima potenza industriale, ma la sua base produttiva è messa a rischio dalla profondità e dalla durata del calo della domanda. A metà 2013 le condizioni della nostra industria manifatturiera appaiono molto preoccupanti a causa delle conseguenze della crisi economica di questi anni.
In proposito, il Centro Studi di Confindustria (CSC) ha da poco pubblicato il volume n. 4 degli “Scenari Industriali”, che ci offre un’accurata e dettagliata analisi della crisi del comparto manifatturiero.
Le due recessioni che hanno colpito l’economia e l’industria italiane sono diverse per intensità, lunghezza e natura. La prima, nel 2008/2009, è durata sette trimestri e ha comportato una caduta del PIL del 7,2% e della produzione industriale del 26,6%, investendo soprattutto le esportazioni (-21,7%) più che la domanda interna (-3,8%). La seconda, in corso da otto trimestri, ha comportato una riduzione del PIL del 4,1% fino al primo quarto 2013 ed è stata determinata dal crollo della domanda interna (-11,7% fino all’ultimo trimestre 2012), mentre l’export è salito del 5,1%.
Il CSC ha calcolato i diversi impatti delle due recessioni nei vari settori produttivi. Ne è emerso che la seconda recessione, misurata sul fatturato in volume, è stata molto più mite (-7,8%) per i comparti con un’incidenza dell’export sopra il 40% rispetto a quelli con quota dell’export inferiore al 20% (-14,8%).
Sempre secondo il CSC, questa crisi ha compromesso la base produttiva dell’industria, sia nel numero di imprese che hanno cessato l’attività, sia nel potenziale manifatturiero ridottosi di oltre il 15%.
Tale fenomeno ha coinvolto anche altri importanti Paesi dell’Eurozona: la distruzione di capacità produttiva è stata massima in Spagna (-17,4%). In Germania si è registrato invece un aumento del potenziale (+2,2%), anche se con grandi differenze tra i vari settori (+14,2% negli autoveicoli e rimorchi, -41,1% nell’abbigliamento). In Italia la maggior parte dei comparti ha visto una diminuzione del potenziale pari o superiore a un quinto (con una punta del 41,2% negli autoveicoli e rimorchi).
In questo contesto, comunque, le nostre imprese cercano di compensare la debolezza dell’economia UE rivolgendosi maggiormente ad altri mercati, in particolare quelli emergenti (come dimostrato dall’aumento del 4% dell’export italiano verso queste aree dal 2007 al 2013), mentre aumenta il fabbisogno finanziario rispetto ai valori precrisi nonostante una sensibile diminuzione degli investimenti. Per questa ragione la riduzione dei prestiti bancari, che dal 2011 è stata particolarmente acuta nel manifatturiero, minaccia la prosecuzione della normale operatività in una percentuale sempre più ampia di imprese. A tal proposito è interessante citare un recente rapporto, pubblicato da Standard & Poor’s (S&P), da cui emerge un’interessante novità nel panorama delle imprese italiane. Con la riduzione del credito molte aziende del nostro Paese stanno infatti cercando finanziamenti sui mercati obbligazionari, fuori quindi dal circuito bancario. Nel corso dello scorso anno, in seguito alla forte contrazione del credito bancario (-44 miliardi di euro), le aziende italiane hanno emesso 20 miliardi di euro di obbligazioni sui mercati internazionali. Pur restando banco-centriche, e anche se ancora in piccola parte, le nostre imprese – soprattutto le medio-grandi – stanno così tentando di rimpiazzare i finanziamenti mancanti.
Secondo S&P la percentuale di credito ottenuto sui mercati obbligazionari è in aumento (si è passati dal 6% di pochi anni fa all’8% dell’intero fabbisogno) ed è destinata ad aumentare. «Per i prossimi cinque anni – sostiene Renato Panichi, Director Corporate Rating di S&P – abbiamo ipotizzato due scenari. Se la crescita economica restasse bassa il mercato obbligazionario potrebbe arrivare a rappresentare l’11-14% del totale, perché il Credit Crunch spingerebbe le imprese a cercare fonti alternative di finanziamento come accade oggi. Se la crescita fosse invece maggiore il canale obbligazionario potrebbe arrivare a contare per il 14-17%, perché le imprese tornerebbero a investire e dunque avrebbero bisogno di maggiori risorse. I bond, inoltre, hanno mediamente una durata più lunga rispetto ai crediti bancari, per cui un maggior ricorso al mercato obbligazionario da parte delle imprese italiane avrà l’effetto di ridurre il rischio di rifinanziamento».
Il problema maggiore in Italia è costituito dall’assenza di investitori istituzionali per questo tipo di obbligazioni, mediamente piccole, che non sono destinate ai risparmiatori. Nel 2012, infatti, i bond emessi sono stati acquistati per l’80% dell’importo da investitori esteri.
Articolo pubblicato sulla rivista ANDAF di Luglio 2013