Di Paolo Bertoli

Non v’è dubbio. Sono ormai otto anni che cerchiamo di trovare la via d’uscita, nel labirinto Italia, e non è cosa facile. Pur consapevole che non c’è cosa peggiore di un pessimista come me che ad un tratto diventa ottimista, vorrei provare a dimostrare perché l’Italia ce la può fare.
Se è vero che per trovare i rimedi a un male occorre prima trovarne le cause, bisogna in primo luogo ammettere una verità di cui siamo consapevoli – più o meno inconsciamente – ma che neghiamo a noi stessi: il male dell’economia italiana non è figlio dell’euro, né dei subprime, né dei politici corrotti, né delle banche americane, né del debito pubblico, né del lavoro nero, né del fisco iniquo, né tantomeno delle politiche di austerità dell’unione monetaria.
Certamente, in quanto indicato, forse un po’ di responsabilità possiamo trovarla, ma tra tutte le cause che sono state elencate ce n’è una che manca: siamo noi! Noi che ci siamo voluti nascondere trovando ogni pretesto, perché se le cose vanno male è colpa di qualcun altro. Siamo noi che non abbiamo preso posizione sui comportamenti, talvolta censurabili, di un sistema giustizia che non funziona, e che abbiamo avuto una tolleranza assoluta sullo sperpero del denaro pubblico. E siamo sempre noi che abbiamo perso la nostra determinazione e la nostra voglia di fare, e mi riferisco a quella dei tempi dei nostri padri, del dopoguerra, un periodo nel quale non si poteva perdere tempo a lamentarsi ma si poteva fare una sola cosa: impegnarsi, fino allo spasimo.
Dobbiamo anche essere consapevoli che la generazione di chi scrive (ovvero i figli di quei padri che si sono rimboccati le maniche nel dopoguerra) è l’unica, nella storia conosciuta, che è stata (nettamente) meglio della precedente e, purtroppo, anche di quella successiva.
Forse è proprio in questa particolare condizione che vanno ricercate le cause del malessere del nostro Paese. Dobbiamo purtroppo ammettere che è la nostra generazione che ha combinato i guai del nostro tempo. Non abbiamo avuto necessità di fare di più. Ci siamo accontentati. Ci siamo impegnati a consumare le risorse più che a crearle.
Ritrovo in questo pensiero alcune riflessioni di Shumpeter quando, nel suo scritto “Theory of Economic Development” (1912), rielaborava – ma senza smentirla – la teoria di Marx laddove quest’ultimo sosteneva la necessità di avviare un processo di distruzione della ricchezza esistente per liberare la creazione di nuova ricchezza. La declinazione di Shumpeter delle teorie marxiste era quella della “creative destruction”, dove analizzava i concetti seguenti:
“Equilibrio iniziale” ⇒ Routine (“stesso processo dell’anno appena trascorso”)
“Sviluppo economico” ⇒ Azione di disturbo da parte di uno sciame di imprenditori innovativi
“Nuovo equilibrio” ⇒ Distruzione creatrice che colpisce le vecchie routines (selezione economica)
“Evoluzione” ⇒ Innovazione + rinnovo delle routines
Affermando infine che «L’evoluzione del sistema capitalistico è ciclica…».

Per smascherare alcune convinzioni ricorrenti è interessante notare che, al netto degli interessi, il nostro Paese è dal 1992 in avanzo primario e che il rapporto debito pubblico/Pil ha iniziato a crescere proprio dal 2008, anno ritenuto il primo di questa crisi che nel 2016 giunge al suo ottavo anno.
E bene, possiamo fare di più! Occorre solo volerlo con tutta la forza e con l’impegno di tutti.
Ritornando, quindi, al concetto iniziale, devo spiegare perché all’improvviso sono diventato (un po’ più) ottimista. Perché credo che questa situazione di disagio economico sia entrata di più nel profondo del nostro tessuto economico. Se i notai (certamente una classe che ha patito fino ad ora ben poco) si lamentano che non c’è più lavoro, forse allora siamo giunti a comprendere che possiamo fare una cosa sola: ciò che hanno fatto i nostri padri. Impegnarci di più, tollerare di meno, salvaguardare il nostro mondo, ricordandoci che il nostro compito e la nostra principale responsabilità sono di non lasciare ai nostri figli un mondo peggiore rispetto a quello donatoci dai nostri genitori.

Qualche anno fa, quando ero presidente di ANDAF, organizzammo il Convegno Mondiale IAFEI a Firenze. Il titolo era: “Business Renaissance: Storm are not Forever”. Sono davvero convinto che la tempesta sia terminata. Ora sta a noi. E senza scuse.

Ne abbiamo parlato al XXXIX Congresso Nazionale Andaf, a Taormina, il 21 e 22 Ottobre 2016. È un vero peccato se siete mancati!

Articolo pubblicato sulla rivista ANDAF di Luglio 2016